Criticare pesantemente la propria azienda su un social, come ad esempio Facebook, può comportare la perdita del posto di lavoro.
Un lavoratore che in un post su Facebook ha criticato pesantemente la propria azienda con affermazioni, ritenute, dall’azienda, disonorevoli ed infamanti è stato licenziato. Secondo il datore di lavoro il post del lavoratore aveva un contenuto offensivo e dispregiativo e altamente lesivo dell’immagine aziendale. Pertanto l’Azienda ha ritenuto di comminare al suo dipendente la sanzione del licenziamento per giusta causa essendo venuto meno il rapporto fiduciario.
Il ricorso del lavoratore è stato respinto sia in primo che in secondo grado di appello ed infine anche in Cassazione.
Davanti la corte di Cassazione (Ordinanza num.12142, anno 2024) era stato eccepito che la decisione del giudice di merito non fosse fondata su prove concrete ma bensì sull’ausilio di alcuni screenshot, presi all’insaputa del lavoratore, che aveva cancellato il post, e che comunque, a suo dire, era indirizzato ad una ristretta cerchia di amici, senza l’intento di ledere l’immagine aziendale.
La Corte non ha riconosciuto valide tali giustificazioni in quanto, oltre al fatto che il contenuto del post era confermato da due prove testimoniali, esiste anche la circostanza, eventuale, che a visualizzare il post sia stato un gruppo indeterminato di utenti.
“La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca ‘Facebook’ integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione” (Cassazione, 27/04/2018, n. 10280).
Pertanto in tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo, la diffusione su “Facebook” di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per l’attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone.
Più volte la giurisprudenza sia civile che penale della Corte, ha posto in rilievo l’idoneità del messaggio, una volta immesso sul web, anche su un social ad accesso circoscritto, di sfuggire al controllo del suo autore per essere veicolato e rimbalzato verso un pubblico indeterminato, tanto che l’immissione di un “post” di contenuto denigratorio è stato ritenuto più volte idoneo ad integrare gli estremi della diffamazione.
La corte di Cassazione, d’altro canto, ha ritenuto inesistente la diffamazione quando il messaggio si trova circoscritto all’interno di una chat privata. Infatti i messaggi scambiati in una “chat” privata, seppure contenenti commenti offensivi nei confronti della società datrice di lavoro, non costituiscono giusta causa di recesso poiché, essendo diretti unicamente agli iscritti ad un determinato gruppo e non ad una moltitudine indistinta di persone, vanno considerati come la corrispondenza privata, chiusa e inviolabile, e sono inidonei a realizzare una condotta diffamatoria in quanto, ove la comunicazione con più persone avvenga in un ambito riservato, non solo vi è un interesse contrario alla divulgazione, anche colposa, dei fatti e delle notizie ma si impone l’esigenza di tutela della libertà e segretezza delle comunicazioni stesse. Il riferimento concerne un messaggio pubblicato su un gruppo “Facebook” di un determinato sindacato, e, pertanto, nell’ambito di una “chat” chiusa o privata, in relazione alla quale era stata specificamente accertata la volontà dei partecipanti, in numero necessariamente esiguo, di non diffusione all’esterno delle conversazioni ivi svolte.
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